Dopo un paio di anni in accesso anticipato, è finalmente a disposizione su Steam la versione definitiva di Darkwood, opera riportante la firma degli Acid Wizard Studios. Negli ultimi tempi, inutile negarlo, gli horror si sono un po’ appiattiti: c’è chi punta ad esperienze cinematografiche, chi si affida ai solidi “cliché” del settore, come jumpscares o effetti speciali, e chi, semplicemente, fallisce trasformando il tutto in un banale action.
Manca, forse, l’erede di quello che fu il primo titolo a mescolare il fattore orrore non solo con personaggi e trama, ma con l’atmosfera stessa, creando una fusione tale da far respirare tensione e angoscia anche in momenti di apparente calma. Sto parlando, ovviamente, di Silent Hill, uno dei tanti titoli a cui questo Darkwood è stato paragonato (a parte qualcuno che ha azzardato Dark Souls… ormai anche Solitario verrà paragonato alla saga From Software, me lo sento…), ma può realmente essere il titolo degli Acid Wizard Studios il vero erede filosofico di quel mai dimenticato capolavoro (e in parte dell’intera saga) firmato Konami? Scopriamolo assieme, nella recensione completa!
Lasciate ogni speranza, o voi che entrate
Il tutorial base, sotto forma di prologo, ci introduce in un mondo cupo, sporco, governato da una forza non precisata e onnipresente in ogni angolo di oscurità. Il temporaneo protagonista dipinge, con poche linee di dialogo, una piaga che coinvolge l’intera foresta circostante e tutte le persone (e gli animali) che la abitano. Qualcosa è cambiato. Tutti sono cambiati. Scappare dalla foresta è impossibile. Intanto, qualcosa di invisibile, qualcosa presente nella nostra mente, sta prendendo forma, ed è pronta ad uccidere ciò che di “vivo” è rimasto, in quella che ormai è una foresta priva di luce, quella luce del tunnel che riconduce alla normalità, alla sanità, alla salvezza. “There is no home road anymore, meat”.
Il fascino di Darkwood investe il giocatore come un treno in corsa, senza alcuna possibilità di scansarsi. L’atmosfera è il punto di forza dell’intera opera, semplicemente perfetta, ed integrata in modo magistrale nel gameplay stesso: non è qualcosa di contorno, è parte di esso. Il tutto si pone a schermo con una visuale dall’alto, isometrica, che potrebbe a freddo sembrare una pessima scelta, poiché ci permetterebbe di avere sott’occhio tutto l’ambiente circostante, escludendo perciò quell’effetto sorpresa o del “chi va là” che in un horror è fondamentale.
In realtà, i nostri occhi riusciranno a vedere solo ed esclusivamente quello che lo stesso protagonista avrà di fronte: un cono si forma in direzione del suo campo visivo, illuminando (relativamente alla luce artificiale/ambientale del posto) tutto ciò che gli si para davanti, gestendo bene eventuali intralci visivi e restituendo una visione generale molto credibile. Tutto ciò che sfugge alla nostra percezione visiva è buio, abbozzato, astratto, e riusciremo ad intravedere solo ed esclusivamente le strutture già conosciute (una sorta di memoria visiva), mentre oggetti, trappole, nemici e quant’altro saranno completamente invisibili. Nonostante un duro impatto iniziale, questa meccanica si rivela una scelta eccellente, che crea una sorta di tridimensionalità (o per meglio dire, senso di profondità) fittizia e, cosa molto più importante, ci impone a stare sempre sull’attenti, guardandoci attorno in direzione di un suono sinistro, o tenendo d’occhio i nostri passi per evitare nemici o trappole.
Ma passiamo ai due concetti chiave di Darkwood: esplorazione, e sopravvivenza. L’area di gioco di Darkwood è attualmente suddivisa in 4 macro-zone, dove il posizionamento degli edifici o dei punti di interesse, e la sequenza degli eventi che affronteremo durante le nostre run, sono elaborati in maniera procedurale, rendendo ogni partita strutturalmente diversa. Durante le fasi diurne, quando saremo al sicuro dalla “presenza”, ci muoveremo lungo la mappa di gioco alla ricerca di varie risorse. Le principali sono ciocchi di legno e chiodi, che una volta lavorati e utilizzati a dovere, ci permetteranno di barricare e ricostruire il nostro rifugio. A seguire troviamo il carburante, capace di alimentare attrezzi da lavoro e, decisamente di più vitale importanza, i generatori elettrici, capaci di attivare meccanismi ma soprattutto di farci godere di luce elettrica, imprescindibile durante le fasi notturne. Vi sono poi risorse secondarie, il classico “junk” da crafting, che ci permetterà di creare risorse curative, trappole, armi rudimentali e quant’altro. Dopo tutto questo, poi, ci sono i funghi: alcuni di loro, se calpestati, rischiano di avvelenarci per un breve periodo, altri, però, possono essere raccolti e in un secondo momento, nell’angolo cucina di un rifugio, cucinati.
Cucinare i funghi, nel senso più “chimico” della parola, ci permette di creare una miscela potentissima da iniettare nel nostro fragile corpo: questa “iniezione” è, a tutti gli effetti, l’unica meccanica di potenziamento di cui il nostro personaggio dispone. Raggiunta la dose necessaria, sarà possibile scegliere un bonus specifico, come aumentare la nostra resistenza in corsa o incrementare il nostro raggio visivo. A tutto questo, sarà affiancato però un malus da scegliere obbligatoriamente: la foresta dona, la foresta toglie.
Rimanendo sul protagonista, questi dispone di due parametri principali: salute, che indica ovviamente la quantità di danni che possiamo subire prima di andare KO, e stamina, che fondamentalmente indicherà quanto a lungo potremo scattare prima di dover riprendere fiato.
Questi due parametri sono influenzati, in positivo e in negativo, da condizioni esterne, come avvelenamento, disidratazione, tranquillità, affaticamento, immobilizzazione, sanguinamento, sazietà, e via dicendo. Pillole, cibo o bendaggi permettono di alterare o rimuovere condizioni positive, così come attribuircene di positivi. Cercare di essere sempre nelle condizioni migliori è fondamentale per sopravvivere alle intemperie o ad eventuali pericoli circostanti, rappresentati non solo dai “mutanti” o dalla fauna locale (soprattutto cani e cervi), ma anche dalla foresta stessa, disseminata di tagliole e funghi velenosi, capaci di donarci una morte tanto frustrante quanto istantanea.
Ma se tutto ciò detto prima rientra nella fasi di gioco in orari diurni, quando le luci del tramonto si palesano, è il momento di affrontare la pacata furia della foresta. Come il protagonista annuncia all’imbrunire, il ritorno al nostro rifugio non è una scelta, quanto la nostra unica speranza di sopravvivenza: luci, barricate e trappole ben piazzate, sono un ottimo modo per sfuggire alle grinfie degli orrori che verranno (letteralmente) a bussare alla nostra porta.
Quasi tutti i rifugi hanno un punto debole, che ci toccherà barricare alla bell’e meglio, con armadi, tavolini e quant’altro. Le luci a disposizione sono rappresentate da semplici lampade da comodino, e ci toccherà piazzarle in maniera strategica in modo da avere una buona visuale sui punti nevralgici del rifugio. Pronti o no, in ogni caso, la foresta arriva per “manifestarsi”. L’oscurità è la sua dimora, ed è li dove allucinazioni o apparizioni spettrali si manifesteranno più spesso, portandoci a dubitare se ciò che si pone davanti ai nostri occhi è reale o meno. Fortunatamente, se riusciremo a sopravvivere alla nostra follia, saremo abbastanza lucidi per affrontare quello che ci cerca avidamente (e fisicamente) dall’esterno: ammetto che sentir bussare alla porta del rifugio mi ha tentato più di una volta ad aprire, quasi stregato da quella sensazione del “so che non è una buona idea, ma devo vedere”. Molto più spesso, però, ho deciso di rannicchiarmi in un angolo e aspettare le dolci luci dell’alba, e non sempre è tutto finito nel migliore dei modi: cani che spostano l’armadio con cui avevo coperto un buco sulla parete, che si infilano in casa, costringendomi ad affrontarli e a mettermi di peso contro la mobilia; orrori che sfondano la finestra e cercano di eliminarmi nel modo più violento possibile; rumori sinistri e allucinazioni grottesche che spingono a perdere la lucidità e a farmi finire sulle mie stesse trappole; carburante che finisce, relegando il rifugio alle tenebre più oscure.
Ci sono mille modi di morire durante una notte, ma c’è solo una splendida e meravigliosa sensazione: la musica che incalza, l’acuto, la luce che attraversa le barricate, e l’arrivo dell’alba. Una notte è passata, ma non c’è tempo di gioire, perché un nuovo giorno sta arrivando.
Solitamente, dal secondo in poi, faranno le loro apparizioni due dei personaggi principali del gioco: il trader, e il Wolfman. Nessuno dei due sembra completamente umano (chi lo è più ormai?), ma entrambi, con modi diversi, sembrano volerci comunque aiutare. I due hanno la possibilità di barattare le loro risorse con le nostre, col trader che accetterà fondamentalmente qualunque tipo di oggetto decideremo di scambiare, mentre il Wolfman, probabilmente più esperto in ambito sopravvivenza (sarà colui che assegnerà le missioni principali, se così possiamo chiamarle), scambierà solo materiali, armi e affini. Quasi sempre le risorse base avranno un valore basso, e la gestione della nostra economia si baserà fondamentalmente nel trovare risorse preziose per la mappa, come pepite e pietre preziose, o nel creare oggetti più elaborati tramite il nostro banco di lavoro, e solo in seguito barattarle.
Durante le prime fasi di gioco, sarà difficile farsi un’idea corretta del cosa valga la pena di raccogliere, costruire, scambiare, ma fa parte della natura try-and-error del gioco stesso. A proposito di questo, è il caso di presentare le tre difficoltà che il gioco mette a disposizione del giocatore: normale, difficile, e incubo. Le differenze sono sostanziali: a normale, ogni volta che moriremo, perderemo metà dei nostri oggetti, ma avremo la possibilità di recuperarli una volta tornati nel luogo della nostra dipartita; a difficile, avremo un massimo di quattro vite, perderemo sempre la metà dei nostri oggetti ma non ci sarà la possibilità di recuperarli; a incubo, si introduce la meccanica del permadeath, rendendo l’esperienza molto più simile ad un roguelike.
Questa suddivisione delle difficoltà rende il gioco più o meno accessibile a tutti, con una difficoltà a normale che funge da vero e proprio tutorial, o comunque da esperienza più soft, fino ad un incubo che incarna in tutto e per tutto la vera essenza del gioco. L’importante, qualunque difficoltà decidiate sia la più adatta a voi, è ricordare quello che il gioco ci dice sin dall’inizio, per tenere sempre a mente la natura hardcore del titolo:
“Stai giocando ad un gioco spietato e difficile.
Non sarai preso e accompagnato per mano.
Rispetta la foresta. Sii paziente. Concentrati”
La vera dimensione dell’orrore
Siamo nel 2017, e molto spesso, quando si parla di giochi 2D o in pixel-art, i termini più usati sono spesso “abusare”, “hipster” o “vecchio”.
Permettetemi di mettere subito in chiaro una cosa: Darkwood è la dimostrazione che il 2D non è un ripiego (non sempre almeno), ma una vera e propria scelta stilistica e di design. Per leggere un buon libro, è molto meglio un rudere in montagna, che una casa in centro Milano circondata da traffico e chiacchiericcio, non trovate? Ritengo, infatti, assolutamente adeguata la scelta di un motore di gioco 2D orientato alla semplicità, perché è forse proprio questo, unita alla costante mancanza di dettagli grafici tipici di un motore 3D, che mette in moto il nostro cervello portandolo in quella fase denominata “di compensazione”. Niente distrazioni e tanta tanta immaginazione, per farla breve. E, “immaginazione + orrore”, mi sembra un’ottima equazione, soprattutto in un periodo in cui questo genere è troppo spesso orientato alla mera estetica e alla maniacale ricerca del dettaglio, piuttosto che a qualcosa di magari più concreto.
Il fatto che si parli di 2D e, in un certo senso, di pixel-art, non significa comunque che i ragazzi di Acid Wizard Studios si siano adagiati sulle loro poltrone, puntando alla via più facile. Nossignore! Se potessi usare una terminologia tanto cara al mondo Apple, direi che Darkwood rappresenta “il 2D isometrico in pixel-art migliore di sempre”.
Sappiamo bene la difficoltà, per esempio, di gestire sistemi di illuminazione credibili in un ambiente bidimensionale, eppure, in questo caso, il risultato è egregio: l’utilizzo di surfaces (o layer, per i “profani”) multiple e di metodi di fusione gestiti alla perfezione, restituiscono immagini illuminate sempre in maniera piacevole e credibile. Quello che impressiona di più è la diffusione di luci e ombre inerentemente al nostro campo visivo, riproducendo non solo effetti, come già detto, verosimili, ma integrandosi nel gameplay stesso molto di più che in molte produzioni con ambientazioni tridimensionali.
Passando un po’ alla mera estetica, tutto in Darkwood è coerente: fauna, flora, edifici, oggetti e la stessa interfaccia di gioco seguono lo stesso filo conduttore, unendosi in un unico grande quadro grottesco e malinconico allo stesso tempo. Le ombreggiature marcate e i tratti sporchi donano un senso di angoscia che difficilmente vi scollerete di dosso, e la rappresentazione dei personaggi di gioco, e le loro rispettive animazioni, riescono a trasudare carisma e caratterizzazione nonostante la visuale isometrica non lasci spesso molte possibilità in questo frangente. In definitiva, se la vostra mente è aperta e “il vostro cuore puro”, Darkwood si insinuerà dentro di voi in men che non si dica, e difficilmente riuscirete a dimenticarlo in tempi brevi.
Ma se sulla parte grafica si potrebbe discutere, tenendo presente gusti e quant’altro, sul comparto sonoro non ci sono dubbi: azzeccatissimo.
La campionatura è ottima, e la sintetizzazione o la riproduzione dei suoni è volutamente sporca, sia per richiamare titoli e sistemi di gioco d’altri tempi, sia per lasciare, come già accennato prima, spazio all’immaginazione del giocatore. La musica è calda e nostalgica o fredda e sinistra in base alle necessità, alternandosi al silenzio assoluto o ai soli suoni della foresta, con un comparto sonoro che in generale riesce a rappresentare sempre la giusta emozione: amerete profondamente la melodia che accompagna l’arrivo dell’alba, così come arriverete a detestare l’organo che accompagna le sessioni notturne. Dal punto di vista artistico, insomma, Darkwood crea uno stile tutto suo, uno stile che fa dei suoi (obbiettivi) limiti i suoi veri punti di forza.
Conclusioni
Non sono sicuro di aver amato particolarmente Darkwood: non sono un patito degli horror, dei sandbox o dei survival in generale. Eppure, non credo serva essere appassionati o fanatici per riconoscere, godere e rispettare un’opera degna di nota.
Il dubbio potrebbe essere che non amo particolarmente i generi prima citati perché nessuno dei loro esponenti è come Darkwood, ovvero un titolo bilanciato che guarda a se stesso e a nessun’altro. Niente spettacolarizzazione, niente eccessi, niente action inutile: chi sceglie Darwkood lo sceglie per quello che compra, che può sembrare banale, ma onestamente non è così. Quanti di voi comprano un horror per ritrovarsi con un mero action? Quanti di voi affrontano un survival dove tutto si trasforma in un ripetitivo “trova la strategia X per avere subito l’oggetto Y”? Quanti di voi comprano un gioco sandbox per poi rendersi conto che tutto è privo di un anima?
Per tutti coloro che in questo momento hanno la mano alzata, allora ho un solo suggerimento: comprate Darkwood. Saranno 14€ di cui non vi pentirete, a patto di volere davvero quello che state comprando. E quello che state comprando NON è l’erede di Silent Hill, ma sono più che sicuro che se quel titolo godesse di una sorta di “volontà propria”, riconoscerebbe in Darkwood non solo una sua spiccata identità, ma lo spirito di ciò che un vero horror dovrebbe essere. Un horror che, miracolosamente, ci fa anche giocare. Strano, eh?