Gioco a Shadow of the Colossus da quando uscì su Playstation 2. Non perché fossi un visionario o avessi intuito che dietro quella copertina di cartone ci fosse qualcosa di particolarmente interessante, ma perché me lo regalò mio padre. Io avevo forse tredici anni, non è che avessi questa spiccata sensibilità, e in realtà anche il mio vecchio non era un fruitore di videogames informato al punto da capire cos’avesse per le mani; ogni tanto però lui questi colpi profetici nel regalarmi per natale o compleanno qualche titolo particolare li aveva, e anche quella volta colpì nel segno alla faccia di tutti.
Gioco a Shadow of the Colossus da quando ho tredici anni, e potrebbe venirmi naturale buttarmi sul piedistallo dell’elitarismo di chi dice classicamente “giocavo before it was mainstream” vedendo sempre più ingigantirsi la fiumana dei fan. Ci sono infatti persone che si arrogano una posizione sopraelevata anche in un fandom solo in base all’anzianità, e queste sono aumentate nel caso specifico quando SotC uscì su PS3 prima, e su PS4 poche settimane fa.
Io oggi non sono una di quelle persone. Non mi interessa da quante ore, minuti o anni giocate al titolo di Ueda, né se ci abbiate mai giocato. Sappiate semplicemente che se siete arrivati da poco, o avete intenzione di farlo, siete i benvenuti, perché le cose belle è giusto che le vedano tutti.
Uscito come esclusiva Playstation il 7 febbraio 2018, Shadow of the Colossus è infatti stato reso disponibile sulla sua terza console, la quarta della serie delle ammiraglie di Sony: non si tratta però di una semplice versione rimasterizzata come era avvenuto per Playstation 3, ma di un vero e proprio remake, affidato alle sapienti mani di Bluepoint Games, che forte di una tradizione di lavori affini di primissima qualità, ha superato se stessa anche in questo caso.
Pensate per assurdo che il più talentuoso degli artisti moderni prendesse un dipinto di Friedrich e lo replicasse in un’opera capace di mantenere sia lo spirito dell’autore originario che di quello “nuovo”: Questo e Shadow of the Colossus per Playstation 4.
Fin dove ti spingerai per amore?
Non è cambiata nel corso degli anni la storia narrata all’interno del titolo: ciò che il giocatore all’inizio del gioco sa per certo è che vestirà i panni di Wander, un ragazzo giunto in una terra desolata in groppa alla cavalla Agro portando con se il cadavere della giovane Mono. In mezzo a queste lande proibite infatti si erge un santuario dove è rinchiuso il semidio Dormin, il quale seppur sigillato all’interno del tempio, conserva ancora intatto il suo potere, in grado addirittura di resuscitare i morti. È per questo che Wander è qui: appena giunto al sacrario il ragazzo viene infatti attaccato dalla potenza della divinità, che frena però la sua “mano” quando vede la spada che il giovane porta con sé, la lama sacra che cela il potere di sciogliere il suo sigillo. Il grande meccanismo a questo punto si è già messo in moto: Dormin riporterà in vita Mono quando Wander lo libererà. Per farlo il giovane dovrà viaggiare per la landa e sconfiggere sedici colossi, in ognuno dei quali una parte del potere del dio è stato incatenato.
I colossi però sono tutt’altro che pacifici: si tratta di fatto dei guardiani che impediscono il ritorno di una divinità che molte cose è, ma non benevola. Questi faranno di tutto per fermare Wander, che sebbene sia consapevole della malvagità di Dormin, vedrà queste immense creature quasi indistruttibili come unico ostacolo sulla via per salvare Mono dal freddo regno dei defunti.
Questo però è solo quello che ci viene esplicitamente detto alla fine della sequenza iniziale, e tra le foreste, i deserti e le piane della Forbidden Land giacciono segreti molto più profondi: incastonato nella lore della trilogia che SotC compone con The Last Guardian e Ico, il progetto offre agli esploratori più attenti indizi ed elementi fondamentali per “mettere i puntini sulle I” e capire davvero gli avvenimenti trattati nella storia, creando di fatto un comparto di narrativa indiretta che è forse una delle cose più profonde ed emozionanti del prodotto.
Oggi nel 2018 così come è sempre stato da quando il titolo ha visto la luce, Shadow of Colossus è una storia di fede, coraggio e amore che trascende il cavalleresco per tuffarsi nello spirituale.
A cavallo
Shadow of Colossus propone nel suo remake lo stesso gameplay delle sue precedenti apparizioni: a disposizione del giocatore c’è di fatto una vastissima mappa e sedici bossfight; lo scheletro dell’esperienza è dunque in soldoni quello che investe l’utente del compito di viaggiare verso il nostro nemico, trovarlo, capire la strategia per abbatterlo e provvedere, facendo un altro passo verso la salvezza di Mono. Nella landa non ci sono nemici minori ne missioni secondarie, e gli unici punti di interesse sono dati da piccoli sacrari che nelle versioni precedenti erano gli unici luoghi dov’era possibile salvare il gioco e che ora fungono da checkpoint (su PS4 oltre a refullare le stats del personaggio, i sacrari provvederanno ad operare un salvataggio rapido, che andrà comunque ad affiancare il salvataggio manuale disponibile in ogni momento dell’avventura). Ci sono anche sparsi per la landa particolari alberi i cui frutti una volta mangiati faranno aumentare la barra della vita di Wander, che affiancherà la barra gialla della stamina, incrementabile nutrendosi di particolari lucertole dalla coda luminosa.
Tutto qui. Ma perché allora Shadow of the Colossus gode dal lontano 2006 della nomea di titolo rivoluzionario?
Perché semplicemente è stato uno dei primi, attraverso un gameplay semplice, ad offrire qualcosa che di rado si vede anche oggi: un videogioco calibrato per raccontare una storia e far vivere un’esperienza individuale, che è un tipo di intrattenimento diverso da quello proposto solitamente.
I momenti canonicamente “divertenti” di SotC infatti sono quelli che si vivono all’interno delle bossfight con i colossi; eppure quest’opera non è “divertente”. Se in 5 ore di gioco io ho battuto un solo boss e ci ho impiegato precisamente 3 minuti e 49 secondi, (giuro che sono i miei dati reali) vuole dire che quello che ho fatto nel resto del tempo non è stato giocare nel senso stretto, ma assaporare, viaggiare, scoprire un nuovo scorcio, vedere i fili d’erba mossi dalla corsa di Agro; in due parole, avere esperienza.
Gli anni nella landa
La notizia del remake di Shadow of the Colossus, data alla conferenza di Sony all’E3 2017, aveva emozionato e incuriosito tutti: sarebbe riuscita Bluepoint games a “modernizzare” il titolo senza svenderne l’anima? La risposta è arrivata chiara il 7 febbraio 2018, ed è stata un fortissimo e celeste “SI”: le vaste ambientazioni che non avrebbero sfigurato in nessun dipinto romantico sono state rese in maniera magnifica, valorizzando ogni dettaglio senza rendere pesante o troppo opprimente il colpo d’occhio. Il comparto visivo nel suo insieme è come una torta alla panna che non riempie lo stomaco, ma che si gode fresca e leggera.
Un’altra cosa per la quale SotC si era fatto notare sin dalla sua prima uscita era l’altissima qualità delle animazioni di ogni elemento, che su questo remake resta ancora visibile, attualissima e ancora più godibile grazie alla definizione e alla morbidezza dei modelli poligonali, che vengono inondati da un nuovo sistema di luci e ombre reso a dir poco gloriosamente e che rende ogni inquadratura fiabesca.
In the Land of Happiness
La colonna sonora del titolo, scritta da Kow Otani per la prima uscita di Shadow of the Colossus è un’altra cosa che non è cambiata di molto tra gli elementi proverbiali dell’opera: questa, solo lievemente riarrangiata per il remake, ha il compito molto importante di accompagnare il giocatore solo nei momenti di maggiore interesse narrativo all’interno dell’avventura, attraverso l’impiego di arie ora malinconiche e riflessive, perfette per l’atmosfera di solitudine che si respira nella forbidden lands, ora concitate e frenetiche, il giusto sottofondo per i climax di azione che si vivono nelle battaglie.
La musica in senso stretto accompagna sì solo combattimenti e fasi di narrazione, ma sarà quasi impossibile trovare del silenzio nella landa: in linea col grande realismo e coerenza, saremo seguiti in ogni momento della nostra avventura dai rumori della natura, il suono del vento che sibila in una caverna o che spazza una piana, gli uccelli, un ruscello e ogni altro elemento acustico che troveremmo se fossimo davvero al posto di Wander.
Cosa è cambiato?
Cosa cambia dunque dai precedenti Shadow of the Colossus a questo riuscito Remake, oltre naturalmente al comparto visivo migliorato oltre ogni immaginazione? Innanzitutto la mappatura dei comandi, resi ora in maniera più “occidentale”, ma anche lo spostamento delle armi dalla meccanica di rotazione classica ad una invece che le lega ognuna ad una freccetta direzionale sulla parte sinistra del pad; a questo si aggiunge un nuovo sistema di salvataggio al quale si è già accennato, che utilizza i sacrari come checkpoint per i salvataggi manuali disponibili in ogni momento dell’avventura, oltre che all’introduzione di una magnifica modalità fotografia, che permette di congelare le nostre avventure e, tramite un buon editor, creare delle immagini degne di testimoniare il sublime dei nostri viaggi.
Ultima cosa, ma non certo per importanza,è la faccenda legata all’elemento stamina: tutti i veterani di SotC ricorderanno infatti che l’indicatore di questa statistica di Wander non era reso nelle versioni precedenti come quello della barra della salute, ma come un cerchio il cui diametro cresceva all’aumentare della nostra forza in questo senso; in poco tempo, questo cerchio si trovava a uscire per metà dall’angolo in basso a destra dello schermo, e per l’altra metà ad occupare in maniera alquanto opprimente una parte intollerabile dello schermo stesso. Nel 2018 però, signore e signori, finisce la tirannia della stamina: in questo remake infatti l’importante statistica parte solamente come piccolo cerchio, ma si sviluppa in una canonica barra orizzontale sulla parte bassa dell’interfaccia, segnando un importantissimo passo avanti nella questione tecnica e facendo meritare a Bluepoint un’ennesima nota di merito, oltre che un bel mazzo di rose blu da parte di tutti i giocatori.
I 79 passi
Lasciando perdere il lato tecnico però, c’è un’altra cosa che è stata aggiunta all’opera: si tratta di una classe di collezionabili, non presente nelle precedenti versioni, che è stata (ed è tutt’ora secondo alcuni tra cui il sottoscritto) un mistero. Gli oggetti in questione prendono il nome di Enlightenments e sono delle piccole sfere di luce nascoste per tutta l’immensa mappa di gioco, non segnalate da alcun indicatore e scovabili solo con un’attenta analisi del territorio e grazie al lieve tintinnio che emettono, troppo tenue per essere sentito da lontano, ma che ne certifica la presenza in una zona anche senza avere con essi il contatto visivo.
Solo dopo aver interpretato un messaggio tra i titoli di coda che ringraziava “Nomad Colossus e i suoi 79 passi verso l’illuminazione” i giocatori più attenti sono riusciti a capire che i collezionabili erano inseriti in un set di appunto 79 elementi, collegati in qualche maniera con il creatore di contenuti Nomad Colossus, che per anni ha sviscerato SotC fino ad esaminarne le stringhe del codice, alla ricerca della soluzione del leggendario “Last Big Secret”,che si dice sia ancora celato nel gioco. Non si sa cosa questo segreto possa essere, ne se davvero esista, in quanto il creatore Fumito Ueda, interpellato all’epoca a riguardo, non ne confermo né smenti la presenza.
Ciò che è certo è che una volta trovate tutte e 79 queste reliquie i giocatori possono avere accesso ad una zona segreta del Sacrario principale e ottenere una spada unica legata al personaggio di Dormin, ma inserita in questo contesto, può essere davvero solo questa la risposta al mistero, oppure questi 79 passi sono solo i primi che iniziano un cammino molto più lungo che ha come meta la risoluzione del mitico Last Big Secret?
Un viaggio di cui non si conosce la meta può essere comunque un viaggio fantastico, e anche in questo infatti risiede una grande parte del fascino di Shadow of the Colossus.
Sono passati dodici anni da quando io e molti altri insieme a noi hanno giocato per la prima volta a Shadow of the Colossus, e a pensarci bene potremmo scoprire che non siamo cambiati poi molto. Siamo partiti vedendo gli zoccoli di Agro fare quel salto a ridosso della parete della montagna in quel canyon illuminato dalla luna quella volta, e da allora siamo cresciuti tutti, volenti o nolenti. Eppure dopo dodici anni abbiamo rifatto quel salto e ci rendiamo conto che tutte le esperienze che abbiamo fatto da allora, tutte le nostre maturazioni e i nostri viaggi, non contano nulla qui. Ancora proviamo emozione a percorrere il ponte del santuario e questa emozione è solo cresciuta, enfatizzata dalla qualità del remake di Bluepoint.
Abbiamo girato il mondo della video ludica in dodici anni, ma siamo tornati a casa: abbiamo scoperto che questa casa è diventata un palazzo, e nelle sue sale abbiamo trovato persone che magari dodici anni fa non c’erano, alcune giunte in occasione della rimasterizzazione su PS3, altre poco meno di un mese fa. Questa casa è anche casa loro, perché il solo apprezzarla ci rende vicini tra di noi e riuniti intorno a ciò che ci lega.
Shadow of the Colossus è arrivato su PS4: bentornato a chi c’era prima, benvenuto a chi giunge ora.
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