Questa settimana si sono risvegliati i più profondi e forti istinti pirateschi sopiti in tutti noi videogiocatori grazie all’uscita di Sea of Thieves, gioco per PC e Xbox One sviluppato da Rare e prodotto da Microsoft Studios, e Assassin’s Creed Rogue Remastered, la riedizione per console PlayStation 4 e Xbox One di uno dei capitoli della serie passati in sordina nella scorsa generazione.
Ma l’amore per la pirateria videoludica (e no…non sto parlando di giochi crackati) nasce ben prima di questo neonato fenomeno mondiale, in un’epoca in cui i videogiochi non erano ancora una tendenza bensì un prodotto rivolto ad una ristretta nicchia di compratori. Le cose sono notevolmente cambiate nel corso di questi due decenni, sia per quanto riguarda il medium, il gameplay, l’hardware di riferimento e soprattutto l’impatto sociale, permettendo un’evoluzione continuativa di questo genere videoludico; in questo speciale andremo ad affrontare proprio tale processo facendo le dovute scremature, ovvero andando ad affrontare solo i titoli che maggiormente hanno contribuito ad esso, lasciandoci alle spalle quei titoli che, per una ragione o per l’altra, non sono riusciti ad impostarsi come capisaldi finendo nel dimenticatoio.
Tutto ha inizio quando un giovane di nome Guybrush Threepwood decise di intraprendere la via della pirateria nell’ormai lontanissimo 1990 in The Secret of Monkey Island, storico gioco uscito su computer che ormai si possono definire cimeli tecnologici quali Amiga, Atari ST, DOS, FM Towns e Mac Os, ma anche sulla console Sega Mega Drive. Si tratta di un’avventura grafica targata LucasArts (all’epoca ancora Lucasfilm Games) nonché creazione di Ron Gilbert, tutt’ora considerato il guru delle avventure grafiche, dotata di un’ambientazione piratesca vastissima e mozzafiato. Tale titolo era dotato di un gameplay decisamente innovativo per l’epoca, potendo a tutti gli effetti interagire con qualsiasi personaggio e/o oggetto presente su schermo tramite diversi comandi, creando bizzarrissime combinazioni. Tra enigmi, azione, battute scanzonate e autoironia posso affermare che The Secret of Monkey Island e la sua saga mi ha permesso di vivere a tutti gli effetti la mia prima avventura piratesca con qualche anno di ritardo (alla tenera età di sei anni, ovvero nel 2000), riuscendo nonostante ciò ad immergermi appieno nella sua vicenda, creando così un insaziabile voglia di scorribande, grog e arrembaggi allora pixellosi. Il piccolo Mattia però voleva di più! Voleva poter mettersi al timone, cantare canzonacce stonate e abbordare navi mercantili… ma avrebbe dovuto aspettare ancora qualche anno. L’hardware era ancora troppo debole per sostenere e sviluppare progetti più caparbi, soprattutto tenendo conto del minore impatto sociale che avevano i videogiochi all’epoca con un conseguente guadagno ristretto.
Il primo scossone volto a rinnovare le cose lo troviamo nello sviluppo di due titoli gestionali appartenenti a due saghe già note; tali titoli si trovano in realtà agli antipodi, in quanto in uno ci si trovava a gestire un covo di pirati fronteggiando le colonie europee, mentre nell’altro si gestivano colonie europee fronteggiando la pirateria! Sto parlando di Tropico 2: Il covo dei pirati e Port Royale 2: Impero e pirati, rispettivamente del 2003 e del 2004.
Tropico 2 diverge dal suo predecessore, in quanto si è passati dalla gestione di una nazione tropicale ai tempi della guerra fredda alla gestione di un covo di pirati in pieno XVI° secolo, pur mantenendo un gameplay simile; al contrario Port Royale 2 si mantiene sulla stessa linea del predecessore, avanzando solo di un secolo nella propria timeline con la conseguente aggiunta della pirateria. Gestire una società piratesca oppure combatterla non concederà la stessa immersione che potrebbe garantire un gioco d’avventura, ma permette di conoscere in modo più concreto e dettagliato la pirateria da un punto di vista storico, o meglio pseudo-storico in quanto le azioni all’interno dei giochi stravolgono il più delle volte la veridicità dei fatti. Subito dopo questi titoli le saghe si sono evolute in modi differenti: Tropico è tornato alle sue origini permettendo di gestire una nazione tropicali in epoca contemporanea arrivando fino al quinto capitolo nel 2014; contrariamente Port Royale ha seguito la propria continuity, ampliando semplicemente il proprio gameplay nel terzo ed ultimo capitolo della saga risalente al 2012.
Giochi interessanti e divertenti, indubbiamente, ma quando dicevo che il piccolo Mattia desiderava vivere l’epoca piratesca intendevo qualcosa di ulteriormente diverso! Gestire qualcosa non ti permette una buona immedesimazione, in quanto rende il giocatore particolarmente distaccato e freddo nei confronti di ciò che succede da ottimo calcolatore quale deve essere…siamo ancora lontani dal vivere come un pirata! Si, voglio gestire il mio covo al meglio in modo da garantirmi il dominio dei sette mari, ma dov’è l’avventura? Dove sono gli arrembaggi? Dove sono le mappe del tesoro?
Ed ecco che all’orizzonte del 2012 spuntò Risen 2: Dark Waters, gioco di ruolo sviluppato da Pyranha Bytes e pubblicato da Deep Silver; fin dai primi trailer capii che questo nuovo capitolo della saga Risen era del tutto differente dal suo predecessore ad ambientazione fantasy medievale in quanto presentava isole tropicali, galeoni e pirati da quattro soldi: intravedevo finalmente qualcosa che potesse essere proprio ciò a cui anelavo. La delusione però è stata cocente, in quanto il titolo non solo è risultato essere mediocre sotto quasi ogni punto di vista ma è riuscito anche ad essere troppo limitante. In un gioco piratesco mi sarei aspettato molta più libertà, quando invece mi sono ritrovato in un titolo story-driven dalla narrazione e dal gameplay decisamente sottotono che non è riuscito per niente a soddisfare i miei desideri puerili. Un enorme peccato che, ammetto, ha fatto vacillare profondamente le mie speranze riguardo ad un radioso futuro per il genere piratesco.
Fortunatamente mi sbagliavo! La prima cosa che è riuscita a solleticare il mio interesse e rinnovare le mie aspettative è arrivata quello stesso anno. Non si tratta di un titolo in sé, bensì una modalità presente in un gioco: la modalità navale presente in Assassin’s Creed III, ormai noto titolo Ubisoft. Non starò a parlarvi di tale titolo, andando così nettamente fuori tema in quanto ambientato in un’epoca differente ed affronta tematiche del tutto diverse da quelle della pirateria, ma solo di quella particolare modalità che è riuscita a infilarmi una pulce nell’orecchio.
Connor Kenway, il protagonista del titolo in questione, aveva a disposizione diverse missioni navali da svolgere al comando della propria nave, l’Aquila, in cui era possibile scontrarsi con navi e fortini nemici. La prima cosa che ho pensato drizzando le antenne per l’interesse è stata proprio “E se facessero un gioco con le stesse dinamiche ma ad ambientazione piratesca? Sarebbe un sogno divenuto realtà!”. La risposta è arrivata dalla stessa Ubisoft qualche anno più tardi.
Quando uscì Assassin’s Creed IV: Blackflag nel 2013 il bambino che era in me fu finalmente pago e soddisfatto! Finalmente un titolo che potesse unire l’avventura piratesca, la gestione delle proprie risorse e un’ottima narrazione in modo pressoché perfetto. Era come avere un altro gioco dentro a questo episodio di Assassin’s Creed, una vera e propria carriera da pirati da poter sviluppare e ampliare mano a mano grazie alle numerose e meravigliose missioni secondarie. Ogniqualvolta mi ritrovavo a giocare a Black Flag provavo un vero e proprio senso di libertà: potevo gestire il titolo come meglio credevo! Potevo andare all’arrembaggio, affrontare le navi leggendarie, modificare la mia splendida Jackdaw ed il mio covo, assaltare fortini conquistando intere regioni marittime, andare a caccia, cercare tesori nascosti e compiere immersioni alla ricerca di relitti; insomma, mi sentivo letteralmente il Re dei Pirati in un contesto storico pseudo-realistico affascinante ed emotivamente accattivante! Il miglior gioco dedicato alla pirateria che abbia mai provato in tutta la mia esperienza videoludica.
Il gioco fu talmente riuscito che Ubisoft cercò di riutilizzare le ottime strategie di gameplay in tempi brevi, facendo uscire Assassin’s Creed: Rogue nel 2015. Anche qui ci troviamo di fronte ad un contesto ampiamente fuori tema che non andremo ad affrontare nel dettaglio, basti sapere che le dinamiche che tanto funzionarono in un’ambientazione piratesca risultarono altrettanto piacevoli e godibili anche in un contesto diverso, nonostante l’evidente e giusta mancanza di determinate dinamiche che sarebbe potute risultare eccessive ed irreali in un titolo del genere.
Posso ritenermi soddisfatto dell’evoluzione che tale genere videoludico ha avuto nel corso del tempo, ma ritengo che in qualsiasi processo evolutivo la perfezione non debba esistere, in favore di un altro concetto che reputo più elevato e migliorativo: la perfettibilità, ovvero la volontà di puntare sempre a migliorarsi consapevoli di non essere mai giunti ad un punto d’arrivo. Per quanto io reputassi Blackflag l’apoteosi di tale genere, avrei voluto ancora giochi in ambito e all’E3 2016 Microsoft ha ottenuto la mia attenzione presentando Sea of Thieves, mentre l’anno seguente Ubisoft ha svelato al mondo il suo Skull and Bones. Del primo titolo avremo notevolmente modo di parlare durante le nostre live dedicate ad esso e nella sua recensione di cui si sta occupando attualemente il nostro caporedattore, Paolo Lorenzini. Se volete un mio parere vi posso dire tranquillamente che ci troviamo di fronte ad un altro capolavoro dai contenuti molto ampi e interessanti, in grado di permetterci di giocare a fare i pirati in cooperativa con i nostri amici…proprio come dei bimbi felici! Per quanto riguarda Skull and Bones, invece, non sappiamo ancora più di tanto e probabilmente dovremo attendere la prossima E3 per carpire qualche nuova informazione in merito.
La ciurma di Serial Gamer vi ringrazia per l’attenzione e vi ricorda che c’è un bastimento di corsari, forza, noi siamo i re dei sette mari, niente potrà fermarci adesso siamo qua, avanti che si va, un solo grido:
PIRATI SIAMO NOI, ALL’ARREMBAGGIO!