Ci sembrava doveroso tornare a parlare di The Curse of Monkey Island, uno dei classici intramontabili della storia dei videogiochi, in occasione del suo debutto su GOG.com e Steam.
Sviluppato e prodotto nel lontanissimo 1997 dalla ormai defunta LucasArts, il terzo capitolo della saga di avventure grafiche dedicate al bizzarro pirata Guybrush Threepwood, di cui abbiamo avuto modo di discutere nel nostro speciale dedicato ai pirati nei videogiochi, si discosta ampiamente dai suoi due predecessori. Uno stravolgimento quasi totale della saga, che, seppur mantenendo i propri capisaldi, non è riuscito ad accattivarsi i vecchi fan legati al glorioso passato di tale saga videoludica, sentitosi in qualche modo traditi dal cambio di registro(ed anche di regia in effetti). Questa demonizzazione di The Curse of Monkey Island la trovo oltremodo eccessiva, in quanto il titolo riesce ad essere ampiamente godibile e divertente, nonostante la presenza di alcuni difetti eccessivamente ingigantiti dalle malelingue. Ma andiamo ad analizzare le varie componenti del gioco.
Una proposta di matrimonio molto attesa
Se non conoscete la saga di Monkey Island potrete tranquillamente approcciarvi a questo esilarante capitolo, ma dovrete confrontarvi con un incipit particolarmente caotico in cui riuscirete a comprendere ben poco. Ci ritroveremo alla deriva in alto mare insieme al nostro smilzo pirata biondo su di un macchinina autoscontro, alla ricerca di terra ferma su cui poter sbarcare; la corrente condurrà quest’improbabile imbarcazione fino a Plunder Island, dove LeChuck, pirata zombie acerrimo nemico di Guybrush, sta attaccando il forte principale al fine di convincere la governatrice Elaine Marley a sposarlo.
Guybrush, anch’esso innamorato della bella governatrice che i vecchi fan hanno ampiamente conosciuto, decide di intervenire, senza ottenere risultato alcuno se non essere catturato come prigioniero sulla nave pirata. Ma Guybrush, come al solito, riesce a ribaltare la situazione, facendo affondare l’intera nave con tutto il suo equipaggio liberandosi una volta per tutte di LeChuck(…forse…).
Infervorato dalla grandiosa vittoria, Guybrush proporrà ad Ellaine di sposarlo con un anello adornato da un enorme diamante. Sfortuna vuole che tale anello sia in realtà maledetto tramutando in questo modo la governatrice in una statua d’oro massiccio. Ma Guybrush non si arrende al triste destino della sua fidanzata e cerca subito aiuto, trovandolo in una strega voodoo nascosta nelle paludi di Plunder Island(anch’ella una vecchia conoscenza dei fan).
L’unico modo per poter salvare Ellaine sarà quello di trovare un anello dello stesso valore per poi sostituirlo con quello maledetto, e l’unico anello conosciuto sulla faccia della terra ad essere così prezioso si trova su Blood Island. Come se non bastasse, una volta tornato sulla spiaggia Guybrush non trova più la statua d’oro di Ellaine, da lui incautamente abbandonata alla mercé di chiunque. Insomma l’inizio di un’avventura all’insegna dello humor, degli enigmi e della pirateria attende qualsiasi giocatore che abbia voglia di un po’ di retrogaming. Se è la prima volta che vi approcciate alla saga ciò non sarà un enorme problema: sebbene il consiglio sia sempre quello di giocare ai vecchi capitoli(di cui potete facilmente reperire anche i remake), a parte un iniziale spaesamento riuscirete ad affezionarvi fin da subito alla vicenda e ad ogni personaggio di The Curse of Monkey Island, sentendovi spronati nel procedere con il suo completamento.
Andando ad analizzare un tantino in profondità tale titolo è necessario puntualizzare che il cambio di regia dal secondo al terzo capitolo si avverte molto: i primi due capitoli, sviluppati sotto l’ala protettrice del guru delle avventure grafiche Ron Gilbert, sebbene avessero uno stile scanzonato e molto autoironico, presentavano vicende e personaggi molto più articolati e profondi rispetto a quelli presentati in The Curse of Monkey Island; basti pensare al solo Guybrush, che in questo capitolo risulta essere molto più allampanato e trascinato dal corso degli eventi rispetto al suo corrispettivo passato. Nonostante ciò il titolo riesce ad essere un prodotto qualitativamente valido e divertente, ricco inoltre di innumerevoli citazioni che strizzeranno l’occhio a tutti i fan delle avventure grafiche made in LucasArts.
Interfacce semplificate ma stesso divertimento
The Curse of Monkey Island mantiene uno stile di gioco estremamente simile a quello visto nei suoi predecessori, in cui era possibile scegliere tra numerose azioni per poter interagire con l’ambiente circostante. Ora sebbene nel titolo questa interfaccia sia semplificata a tre semplici interazioni, esse basteranno a influenzare dinamicamente ed efficacemente con tutto ciò che circonda il nostro protagonista al fine di risolvere i numerosissimi enigmi(che diventano molti di più nella modalità Mega-Monkey) tramite soluzioni poco ortodosse e non convenzionali.
Il gameplay è reso ulteriormente piacevole grazie all’autoironia tipica della saga: reazioni umane esilaranti, combinazioni assurde di oggetti e battute ilari ed estemporanee in grado di sfondare la quarta parete sono all’ordine della giocata, garantendo un divertimento costante! Basterà semplicemente fare pace con il fatto che il gioco ha ormai ventun anni, e tutto ciò potrebbe essere affrontato col piede sbagliato da parte di chiunque non ami il retrogaming.
All’arrembaggio!
C’è da dire che il comparto tecnico di The Curse of Monkey Island è invecchiato particolarmente bene, tenendo conto del fatto che si tratta di un’avventura grafica animata, contrariamente allo stile pittorico tenuto nei suoi primi due capitoli. La grafica dai colori caldi e sgargianti ci immerge in un ambiente piratesco ben realizzato, la cui magia viene purtroppo distrutta dal fatto che non si tratta di una remastered, ma dell’edizione originale riportata sulle piattaforme moderne grazie allo ScummVM 2.0, causando diversi problemi alla qualità visiva seppur migliorando l’approccio alle impostazioni del gioco.
Di per sé anche la componente sonora è incantevole, riuscendo a coinvolgere il giocatore in ogni istantte. Da notare anche l’eccellente doppiaggio inglese, unica versione disponibile nonostante il gioco sia uscito in diverse edizioni, ed è per questo motivo infatti abbiamo usato la dicitura The Curse of Monkey Island al posto del titolo localizzato La maledizione di Monkey Island. Tutto ciò in realtà non risulta essere un peccato, in quanto, se si ha un minimo di conoscenza della lingua inglese, il gioco è maggiormente godibile tenendo conto del nostro mediocre doppiaggio del ‘97.
Conclusioni
The Curse of Monkey Island è riuscito dopo così tanto tempo a riconquistarmi essendo dotato, sebbene meno interessante ed avvincente dei suoi imponenti predecessori, di un carisma che non risulta indifferente. Nonostante il cambio di regia e di pubblico di riferimento, reso più ampio e giovane, non mi sento di affermare che la saga di Monkey Island sia stata uccisa da questo episodio, come sostengono molti dei suoi fan, ma anzi vedo in esso un semplice tentativo, non perfettamente riuscito, di far ritornare in auge il brand.
Un titolo che consiglio vivamente a tutti coloro che vogliono rivivere una vecchia avventura o a tutti i retrogamer che non hanno ancora avuto modo di giocarlo.
*Codice digitale del gioco fornito da GOG.com