Sono 24 anni che chi va al cinema per vedere un film su Jurassic Park sa esattamente cosa può aspettarsi. Ogni produzione che abbia a che fare con gli emblematici dinosauroni che tutti amiamo mira senza troppi fronzoli a offrire azione, esplosioni e tanti, tanti denti, essenziali per attentare ad un ordine della catena alimentare che, mettendo l’uomo al vertice, ha stufato tutti. Jurassic World: Il Regno Distrutto però ha un nome che vuole essere un emblema: una rottura con tutto ciò che è passato per ridisegnare la storia della saga. Se il film riuscirà a rendere fresco e interessante un nuovo giurassico, lo proveremo a stabilire ora.
Diretta da Juan Antonio Bayona, la storia raccontata nella pellicola riprende gli eventi narrati nel primo Jurassic World svariati anni dopo la sua conclusione: dopo il disastro che ha chiuso infatti il primo film, con la conseguente chiusura del parco dei dinosauri sull’isola Nublar, questo ecosistema si vede condannato dall’imminente esplosione del vulcano situato sull’isola.
Tralasciando le congratulazioni a chi a deciso di aprire un parco di dinosauri ai piedi di un vulcano, resta il fatto relativo a come il mondo venga scosso dal dilemma etico della minaccia ad una seconda estinzione dei dinosauri: deve l’uomo proteggere le varie specie di lucertoloni preistorici come fossero rinoceronti o panda, oppure restare impassibile davanti alla scomparsa dei cloni creati in laboratorio (dilemmone etico-morale intensifies) che abitano l’ormai ex parco? Per essere un problema di questo calibro impossibile notare come la situazione venga sbrogliata in quattro e quattr’otto: il governo americano o chi per lui viene infatti convinto al minuto 3 a sciacquarsi le mani della faccenda da un redivivo dottor Malcolm (Jeff Goldblum), che ha così un suo interessante cameo nel lungometraggio. A questo punto entrano in scena i nostri ormai conosciuti eroi. La rossa Claire Dearing (Bryce Dallas Howard) infatti, munita della solita frangetta che era in effetti di moda nel cretaceo, viene assunta da Benjamin Lockwood (James Cromwell), collega di quell’Hammond padrone del primo Jurassic Park e quindi padre della deestinzione dei dinosauri. Lockwood vuole, attraverso un’operazione guidata da dei mercenari affidabili come me ai fornelli, salvare il maggior numero di specie di animali possibile e portarle su un’altra isola (senza vulcano), dove possano vivere libere e protette. Per fare questo Claire, che ancora non ha capito che sarebbe meglio che lei i dinosauri li lasciasse perdere, chiederà l’aiuto del nostro buon Owen Grady (Chris Pratt), l’unico in grado di avvicinare la velociraptor Blue, che lui stesso ha cresciuto e che abbiamo imparato a conoscere nel primo film.
Arrivati sulla isola i protagonisti, aiutati dai giovani Franklin Webb (Justice Smith) e Zia Rodriguez (Daniella Pineda), ci impiegheranno circa 16 secondi netti per capire di essere stati raggirati, e che l’operazione di salvataggio dei dinosauri è in realtà un vero e proprio atto di bracconaggio, finalizzato alla cattura di quanti più esemplari possibile e alla successiva vendita sul mercato nero.
Ma, come sempre, c’è di peggio. Si trattasse infatti semplicemente di rivendere un cucciolo di triceratopo al riccone che vuole l’animale esotico uno ad un certo punto dice pure che uno coi suoi soldi si compra quello che vuole e che probabilmente pure la pecora Dolly è finita nel salotto di Tyson insieme alla tigre e il varano, ma qui la cosa è ben più grave. Non contenti del fallimento maturato con la nascita nel primo film dell’indomitus Rex, le menti senza scrupoli che giocano con la genetica hanno infatti creato qualcosa ben peggiore di quella volta, con più denti, più fico…
Dalla trama qualcuno direbbe dunque “nulla di nuovo dal fronte”, e in realtà è così anche per i personaggi: se infatti da una parte ritroviamo Claire esattamente come l’abbiamo lasciata nel finale del primo Jurassic world, così lontana dalla fredda donna in carriera che avevamo visto introdurre in primo battuta, anche Owen non è cambiato di una virgola: spaccone e assolutamente poco approfondito, inizialmente rifiuta l’invito di Claire ad unirsi alla missione sfoggiando l’atteggiamento di chi ha accettato di vedere il mondo bruciare in una crisi dei valori senza precedenti, ma poi, si guarda il filmino di lui e Blue ai vecchi tempi e la mattina dopo te lo trovi sull’aereo che ha dormito lì per non perdersi la partenza.
Le new entry invece, che hanno il compito di dare una rinfrescata al cast riescono perfettamente nel loro intento: Franklin è divertente, nulla per cui sbellicarsi dalle risate, ma stacca un po’ da tutti i classici sguardi sbarrati e le grida terrorizzate alla vista dei dinosauri. Per quanto riguarda invece Zia, personalmente ne ho molto apprezzato carattere e determinazione, che per quanto vadano a disegnare un personaggio abbastanza stereotipato, era esattamente quello che ci voleva per bilanciare il gruppo. Ottimo anche il design dell’antagonista principale, finalmente credibile e coerente, non piazzato lì a vedere che succede tipo il panzone che con quella barba e capelli grigi assomigliava a Valerio Massimo Manfredi del primo film.
Ciò che concerne invece tutto il comparto delle scelte artistiche è perfettamente giustificabile entrando nel merito di ogni situazione, ma forse non del tutto godibile dal punto di vista dello spettatore medio. Certo abbiamo già detto che quando qualcuno va al cinema per vedere un Jurassic Park sa benissimo di andare incontro a qualcosa incentrato sull’amalgama pura azione + esplosioni + dinosauri e poco più, ma forse aggiungere alla ricetta pure tutta una parte condita con delle pacchianissime colate di lava è un po’ troppo. Ottima invece l’ambientazione e la cornice in cui si svolge la scena finale del film, inaspettatamente gotica e di certo suggestiva in ogni sua espressione.
Qualcuno direbbe che le inquadrature e le scelte del comparto fotografico del lungometraggio siano scontate in molte loro declinazioni, ma credo sbaglierebbe: Jurassic Park è una delle poche saghe che può citarsi da sola ad oltranza senza cadere del ridondante, e personalmente penso che molte immagini che il film ci propone siano esattamente questo: autocitazioni. Le ombre dei dinosauri sulle pareti, i primi piani sugli occhi delle bestie, l’indugiare sui loro ruggiti e le loro minacce agli avversari, che in molti altri film sarebbero state superflue e ai limiti del trash, in Jurassic World sono invece perfette per ricordare sia fan di vecchia data quanto sia unica la serie di questi film.
Arrivando a concludere, appare alla fine chiaro che tipo di prodotto sia Jurassic World: Il Regno Distrutto: dotato di una storia molto semplice che imbecca delle tematiche anche interessanti solo per lasciarle cadere a tempo di record, il film si concentra esclusivamente sul fattore visivo, attraverso scene capaci di stupire ormai dall’uscita del primo Jurassic Park del 1993. La pellicola, insomma, celebra la grandezza di un franchise ormai ventennale, e che a differenza dei suoi protagonisti è riuscito a rinnovarsi per sopravvivere anche nel panorama cinematografico moderno.
Da molti anni chi va al cinema per vedere un film legato a Jurassic Park sa esattamente cosa aspettarsi, e anche guardando Jurassic World: Il Regno Distrutto, i fan non saranno delusi. Certo, non si può di sicuro parlare, grazie a questo ultimo capitolo della serie, di uno stacco netto con il passato del franchise o un’inversione di rotta (per dove, poi?). Semplicemente, con Jurassic World i nostri amati dinosauri superano la definizione di “pericolose bestie da zoo” e vanno a conquistare l’intero mondo, che un tempo definivamo di proprietà di noi umani.
Pare sarà difficile dormire sereni, le prossime notti.