Ho iniziato a scrivere questo articolo in una giornata “speciale”: il 16 febbraio 2020, esattamente un anno fa, è stato per me l’ultimo giorno di vita normale prima della pandemia da Covid-19.
“Preferivo stare a casa”
Mia zia aveva deciso di fare un pranzo opulento per festeggiare i suoi 60 anni e ci siamo visti in un ristorante a Bevagna (un bellissimo piccolo comune umbro in provincia di Perugia) con altre trenta persone che non conoscevo tra colleghi di lavoro e parenti alla lontana; abbiamo riso, bevuto, mangiato, ballato e fatto una bella passeggiata per il borgo medievale: una domenica meravigliosa di un febbraio caldissimo con nemmeno una nuvola a rovinare l’azzurro. Di quel giorno ricordo la gioia di tutti i presenti, le barzellette tremende di mio zio che con qualche bicchiere in più da sempre il meglio (o il peggio…) di sé e le mie enormi occhiaie, visto che ero stata sveglia tutta la notte a vedere gli All-Star Game dell’NBA.
Di quel giorno ricordo però le parole di mia sorella in macchina: “non ho davvero voglia di andare a questo pranzo, ci saranno i colleghi snob della zia e tutta gente che non conosciamo…come preferivo stare a casa”
Ecco, focalizziamoci su questa ultima frase, detta con superficialità e probabilmente abusata un po’ da tutti quei nerd come me che alla discoteca preferiscono una serata di giochi da tavola a casa di un amico o una notte a giocare online a qualche MMORPG: preferivo stare a casa mi dice sbuffando mentre, entrando nel ristorante, già inquadriamo quegli amici di mia zia che chiedono solo del fidanzato e del perché abbiamo i capelli colorati, preferivo stare a casa mi dice mentre il cameriere porta il primo piatto di risotto agli asparagi e fragole che nemmeno negli anni ‘80 gli avrebbero consentito di servire con tanto orgoglio, preferivo stare a casa le dico quando la parente che non ci vedeva da quando stavamo in incubatrice se ne esce con il sempreverde “vi ricordate di me??” e tu devi dirle con un mezzo sorriso la risposta che probabilmente dovrebbe aspettarsi, visto che la memoria inizia a svilupparsi dai 3 anni in poi e non a una settimana di vita: “No, mi dispiace”.
Se ci penso ora, la frase “preferivo stare a casa”, mi provoca quella tremenda sensazione di sindrome da stress post-traumatico di chi ha bruciato bambini con il napalm durante la guerra in Vietnam…perché ormai è un anno e passa che sto a casa, però senza preferirlo. Pensare che fino ad un anno fa lo stare a casa per me era molto meglio che andare in giro è come ricevere un pugno nello stomaco…dato da un Mike Tyson furioso.
Non date da mangiare alle scimmie!
Se siete arrivati fino a qui vi state chiedendo di cosa voglio parlare esattamente, perchè scommetto che non vi è per niente chiaro: con questo articolo vorrei fare un paragone che non so se sia lieto o sgradevole, magari potete scrivermi nei commenti cosa ne pensate voi.
Torniamo a quando ho scoperto che quella sarebbe stata l’ultima volta fuori di casa: per combattere la paura di questa novità non molto piacevole, come molti, mi sono rifugiata in camera mia, ho messo una bella coperta di pile sulla testa, ho aperto Steam e mi sono detta, scrocchiando le dita, “è ora di giocare un po’, infondo è il governo che me lo sta chiedendo no?” e così ho fatto: mi capita sotto gli occhi “Do Not Feed The Monkeys” e decido di riscaricarmelo.
É probabile che nessuno di voi lo conosca, spero che almeno un nostro lettore sappia di che parlo, ma per tagliare la testa al toro ve lo racconto brevemente: Do Not Feed the Monkeys è un videogioco punta e clicca del 2018 sviluppato dalla società spagnola Fictiorama Studios e pubblicato da Alawar Premium, disponibile per Nintendo Switch, PlayStation4 e (ovviamente) PC, questo indie può essere riassunto con “simulatore di voyeur” dove intrerpreteremo una persona che passa giornate intere a spiare attraverso camere di sicurezza la vita degli altri.
L’ho acquistato ad inizio 2019 ad un prezzo molto più che amico e a Marzo 2020 l’ho ripreso tra le mani per platinarlo, non immaginandomi minimamente cosa stava per succedere nella mia, anzi nostra, vita: ci siamo ritrovati ad essere un giovane ragazzo squattrinato che lavora giornalmente per pochi spicci, che non ha tempo di dormire, che deve pagare un affitto molto esoso per un buco di casa, che ha sempre il frigo vuoto ma mai i soldi per comprarsi da mangiare e, soprattutto, che sta incollato giorno e notte ad uno schermo a controllare quello che fanno gli “altri”: persone comuni con vite fuori dall’ordinario, oppure luoghi lontani che nascondono segreti inimmaginabili, insomma altro rispetto a te.
Nel gioco una delle meccaniche principali è leggere cosa dicono i personaggi e cliccare le parole evidenziate per appuntarle in un quaderno e cercarle poi su internet per approfondire la conoscenza della “gabbia” (così vengono chiamate le telecamere nel gioco), non è semplice come sembra poiché alcuni eventi succedono solo a determinati orari e quindi come dicevo bisogna stare svegli giorno e notte a controllare fissi uno schermo per non perdersi nemmeno una parola, altrimenti i capi si potrebbero infuriare, visto che ti danno un tempo limite per acquistare nuove telecamere e risolvere gli enigmi delle gabbie.
Nostradamus nei videogiochi?
Le analogie mi sono venute spontanee dopo un anno che anche io sono davanti ad uno schermo a lavorare chiusa in casa e a controllare ossessivamente sia le mie e-mail sia cosa sta succedendo nel mondo, ad uscire poco e con i soldi contati e a non vedere nessuno di diverso dal mio riflesso nel PC in stand-by; il 16 Febbraio 2020 ero ad una festa di compleanno con tanta gente, nessuna mascherina e nessuna paura mentre il 16 Febbraio 2021 è dal primo dell’anno che non vedo i miei zii e prima di quel giorno non li vedevo da inizio Ottobre, un anno che metto la mascherina anche per uscire a buttare la spazzatura e un anno che mi limito a rarissimi incontri solo con le mie conoscenze più strette ed intime piuttosto che voler conoscere gente nuova, bersagliata comunque dalla paura dell’altro.
Vivere in un videogioco sembra il paradosso de “I Simpson che predicono il futuro”: non è un cartone di satira ad essere un veggente alla Nostradamus o un videogioco ad essere fin troppo accurato, è il mondo là fuori che è diventato così assurdo ed inspiegabile da essere simile ad una realtà virtuale inventata e lontano dalla verità. Ho superato le mille parole da un pezzo e sento chiaramente lo sguardo confuso di voi lettori riguardo al vero punto della questione: ci arriverò nel paragrafo successivo, promesso!
In “Do Not Feed The Monkeys” ti viene chiesto, in un messaggio ad inizio gioco, di non interagire con le gabbie in alcun modo e di non intervenire nella vita delle scimmie che stai analizzando ed è chiaro che il gameplay si basa essenzialmente sul non farsi gli affari propri e sul mettere becco in tutte le telecamere, ma a questo punto si può fare una scelta: aiutare quelle persone in tutti i modi possibili o venderle ai capi che ci faranno poi ciò che vogliono (di solito cose brutte).
Guardiamoci intorno e facciamo la scelta giusta: essere cattivi con gli altri nel momento storico che stiamo vivendo non ci permetterà di sbloccare un achievement nascosto o un finale diverso, perché questa storia non può essere ricominciata da capo come il livello di un videogioco, non possiamo premere il tasto RESET e riiniziare da capo, siamo tutti nella stessa situazione e siamo tutti, chi più chi meno, diventati il ragazzo dietro ad uno schermo che spia il mondo fuori: direi che ci conviene scegliere di aiutare gli altri come meglio possiamo e con i mezzi che abbiamo a nostra disposizione, piuttosto che metterli in situazioni spiacevoli senza, a volte, nessun motivo.
Voglio concludere questo speciale con un piccolo messaggio di speranza: non importa quanto sia difficile il gioco a cui state giocando, so per certo che avrà una conclusione prima o poi, che la scritta “complimenti ce l’hai fatta!” comparirà nel cielo in un giorno di sole…fino ad allora però, cerchiamo in tutti i modi possibili di fare “il finale buono”, perchè di solito è quello più bello.