The Uncertain: Light at the End è un’avventura story-driven in terza persona sviluppata dallo studio indie New Game Order (precedentemente Comon Games), e si configura come secondo capitolo di una trilogia, collegandosi all’universo narrativo introdotto con The Uncertain: Last Quiet Day (2016); pubblicato da META Publishing l’8 ottobre 2020 per PC tramite Steam, e in possibile arrivo per console PS4, Xbox One e Nintendo Switch durante l’anno corrente, il titolo ci porta in un mondo post-apocalittico in cui i robot hanno conquistato il posto di dominatori del pianeta, mentre la civiltà umana è al collasso e la sua presenza permane solo in frammentate, minuscole compagini di sopravvissuti. Impersonando Emily, una di queste persone rimaste, ci muoveremo all’interno di un’avventura grafica in cui potremo proseguire nella trama principalmente risolvendo puzzle ed esplorando l’ambiente circostante, interagendo con oggetti e persone.
Humans vs Robots, once again
Come accennato, in The Uncertain le macchine hanno preso il sopravvento sulla razza umana, e a differenza del primo capitolo di questa breve saga, il cui protagonista è appunto un automa, vivremo la parte dei sopravvissuti alla piaga robotica; questa discrepanza permette comunque di non rendere la fruizione della prima parte indispensabile, anzi gli avvenimenti di questo titolo si svolgono in maniera perlopiù indipendente. Controllando una giovane ragazza, Emily, dovremo in primo luogo cercare provviste per la nostra piccola comitiva, in particolare scorte mediche in una vecchia farmacia e componenti elettroniche per costruire rudimentali mezzi di difesa, e poi guidare il gruppo attraverso una notturna e silenziosa fuga alla ricerca di un rifugio più sicuro, seguendo una nuova speranza.
Infatti i nostri protagonisti sono costretti a vivere in uno scantinato, nascosto dagli occhi della fredda sorveglianza armata delle macchine che infesta le strade abbandonate della città; per motivi ancora non del tutto chiari esse hanno preso il controllo della Terra e vogliono sbarazzarsi di ogni superstite, catturando chi trovano e conducendolo in un luogo sconosciuto, se non sbarazzandosene all’istante. La situazione cambia quando, tentando di lanciare un SOS, il nostro gruppo viene in contatto con una trasmissione sconosciuta, partita da quello che sembra essere un robot amichevole, non succube della corruzione che ha condotto i suoi simili a rovesciare i precedenti padroni: ci dà un appuntamento, delle coordinate, la speranza di poter uscire dalla città per congiungerci con una comunità più nutrita di altri superstiti.
A muovere i nostri personaggi vi è non solo la volontà di cercare la verità ed una vita migliore, ma anche la precarietà delle condizioni di salute di una piccola infante, Vera, neonata malata che necessita di cure mediche; fanno parte della nostra squadra anche altri due giovani ragazzi, Park e Matthew, la madre di Vera, Olga, e un trio di “giovani anziani”, la coppia Alex/Claire e Brian.
La struttura di gioco si dipana in un’esplorazione in terza persona molto classica, in cui possiamo osservare o interagire con oggetti, parlare con gli altri npc, raccogliere oggetti da utilizzare; il nodo centrale per la prosecuzione inoltre è costituito da diversi rompicapi, alcuni più difficili di altri anche se sempre molto “tipici”, con qualche sezione di gameplay un po’ inconsueta fatta di micro quick time event, dubbie parti stealth e minigiochi (sbloccati grazie a piccoli robot collezionabili). Dico “inconsuete” perchè The Uncertain sembra cercare di porsi come opera completa, ricca di idee per coinvolgere il giocatore e guidarlo in maniera variopinta attraverso lo svolgimento della trama, supposta come colonna portante; tuttavia l’intenzione non trova un risultato vincente, anche accantonando pensieri maliziosi che possono emergere nella mente del fruitore, ma ne parleremo compiutamente più avanti.
Esteticamente si presenta in maniera incostante: belli e ben realizzati tutto sommato gli ambienti, con una buona qualità di texture e illuminazione, è percepibile una degna direzione artistica a guidare lo sviluppo delle mappe; tuttavia, il gioco presenta tutti i crismi di una produzione indie nell’accezione più “negativamente stereotipata” del termine, mostrando diverse incertezze: i modelli dei personaggi non brillano, le animazioni sono legnose e spesso raffazzonate, i bug grafici non si contano tra scomparsa di oggetti in cutscenes, lip sync assente, flickering di texture, e chi più ne ha più ne metta. Invece un punto a favore va al sonoro, che presenta gradevoli soundtracks e un sufficiente livello nel doppiaggio inglese (anch’esso però volubile, con variazioni di pitch o di equalizzazione). Tuttavia, anche soprassedendo sulle incertezze tecniche, il titolo è minato alle sue fondamenta da ben altri e più gravi problemi, che riguardano la scrittura e lo sviluppo del gioco di per sè; a poco valgono purtroppo, in questo contesto, le miriadi di easter egg e citazioni ad altri popolari videogiochi sparsi lungo il percorso, più o meno nascostamente e furbescamente (e non scherzo, son davvero molte, probabilmente troppe).
…Ma la luce non arriva
Infatti The Uncertain: Light at the End purtroppo è un prodotto che nel suo complesso risulta fallimentare, e questo per diverse ragioni che prescindono la poca dimistichezza che uno studio indie può avere nella costruzione di un gioco di questo tipo, un’avventura in terza persona dallo stile “realistico”. Se nella narrazione che ho fatto finora potrebbe sembrare essere un’esperienza interessante, nella pratica dei fatti si rivela il contrario: un “gioco” solo di mera definizione, ma senza un’ “anima”. Dal punto di vista pratico, è mancante ogni parte di “polishing”, di rifinitura, a renderlo fin troppo grezzo: non si possono saltare cutscene o dialoghi (anche se spesso essi si inceppano, non vengono mostrati o vocalizzati), spesso viene limitata la libertà di azione, il gioco è male ottimizzato (sono stato costretto a “saltare” un puzzle di trama non perchè non riuscissi a risolverlo, ma perchè i comandi PER risolverlo non rispondevano) e i bug sono una costante; il punto è che, come già detto, anche chiudendo un occhio su questi aspetti tecnici le meccaniche di gioco, la parte fondamentale, risultano una sorta di miscuglio creato “tanto per dar qualcosa da fare al giocatore”, senza molta coerenza.
I puzzle non sono particolarmente ispirati o originali (se avete giocato un professor Layton qualunque, ne avrete risolti a centinaia del tipo) ma soprattutto spesso risultano forzati, come quando sono posti su una cassaforte di cui però si è già ottenuta la chiave; e il resto del gameplay può essere ancora più straniante: tralasciando le classiche componenti da avventura grafica in cui si devono trovare i giusti oggetti da utilizzare al posto giusto, al di là anche dei 3,4 quick time event (costituiti da un solo tasto da premere al momento giusto, senza troppo preavviso), lasciano perplessi le sezioni in cui il nostro movimento verrà limitato ad un unico asse e potremo muoverci solamente a destra o sinistra, spesso dietro ad un riparo e in concomitanza ad un’azione stealth, perchè ad ogni nuova interazione diverranno più discutibili e soprattutto poco coerenti con la narrazione. Poco coerenti ma comunque simpatici saranno anche i minigiochi ottenibili per il nostro “smartwatch”, messi purtroppo palesemente per allungare artificialmente il contenuto, che di per sè è scarso, trattandosi di circa 5 ore di gioco. Quasi spontanea nasce una sgradevole sensazione progredendo, ovvero che in realtà non solo i minigiochi ma anche la gran parte del restante contenuto giocabile sia come dicevo solo un “allungamento” , qualcosa di purtroppo poco studiato messo lì per giustificare l’essere un videogioco, a spalleggiare invece una trama che dovrebbe essere l’aspetto fondante del titolo.
Ed ecco che quindi arriviamo all’aspetto focale, ovvero la narrativa: essendo un’opera basata sulla sua storia da raccontare, e capitolo facente parte di una serie, gli aspetti di puro gameplay potrebbero passare tranquillamente in secondo piano se essa riuscisse ad essere convincente; ma ahimè, non è questo il caso. Purtroppo il grosso lavoro fatto per creare l’universo in cui le vicende si svolgono, e anche l’impegno speso per la sua realizzazione pratica (detto in buona fede questa volta, dato che è percepibile la dedizione volta a creare ambienti, modelli, texture e shader ben studiati e coerenti) viene assolutamente minato tanto dalle scelte di storytelling quanto dalle limitazioni tecniche. Infatti anche se esistono buoni presupposti l’intreccio generale della narrazione è debole, ma soprattutto viene ridicolizzato da scelte di sceneggiatura davvero discutibili, che goffamente cercano di portare avanti un’idea generale di trama senza troppo curarsi di avere coerenza; questo spezza l’immersione del giocatore, che può facilmente venire stuccato dalla poca complessità dei personaggi-macchietta e dalle situazioni “tipiche”, dove la maggior parte sa di già visto, di insipido, di ridondante. Laddove si percepisce che l’idea generale della trama sia definita, la scrittura del particolare e dei singoli eventi invece è totalmente carente e lascia a desiderare.
Purtroppo, il fatto che sia solo una frazione di una serie non gioca a suo favore, ma anzi quasi va ad aggravarla: metà di ciò che accade nel gioco dà l’impressione di essere un riempitivo, e l’azione vera e propria si interrompe al suo culmine creando il classico finale cliffhanger per andarsi poi a riallacciare alla terza e ultima parte; il problema sta nel fatto che in questo caso la cosa non funziona, dato che lo sviluppo della trama, in questo capitolo, è ridicolmente breve e insufficiente a creare un qualche tipo di appagamento o coinvolgimento nel giocatore. Una saga dovrebbe essere formata prima di tutto da titoli dalla dignità propria, e non da ciò che sembra un unico prodotto spezzato in parti per comodità; non può esitere un colpo di scena, se la scena non viene creata prima.
In breve, il risultato finale è piatto e inconsistente, e ciò che ci ritroviamo per le mani è un guscio vuoto con delle meccaniche di gameplay inserite a forza per dare una parvenza di senso, per creare ciò che di definizione sarebbe un “videogioco” ma che nella pratica risulta un tentativo non ottimamente riuscito di raccontare una storia, sfortunatamente non così avvincente. Se due fette di pane racchiudessero una singola foglia di lattuga tecnicamente avremmo un “panino”, ma sarebbe molto arduo definirlo tale, e soprattutto non soddisferebbe il palato di nessuno.
*Recensione effettuata grazie ad un codice digitale fornito dal publisher