Deathbound parla di idee e concetti.
Urla di fallimenti, scelte sbagliate, paura.
In mezzo al caos poi, trova anche il tempo di farci giocare ad un videogioco.
Può essere strano fare una premessa del genere in sede di recensione di un progetto videoludico comunque piccolo, ma nel momento in cui ripenso a Deathbound, dopo averlo giocato qualche giorno fa, mi accorgo che un discorso del genere, che approfondiremo qui di seguito, mi è rimasto in mente molto più della solita analisi del titolo.
Partiamo però con ordine.
Sviluppato dal team brasiliano di Trialforge Studio e già reso disponibile in anteprima su Steam nel 2021, Deathbound è da poco sbarcato anche sulle console casalinghe di nuova generazione: in redazione a Serial Gamer Italia abbiamo avuto modo di provarlo su Playstation 5, e dopo aver concluso l’esperienza nel modo più completo possibile, possiamo ora trarre le conclusioni circa un prodotto inaspettato, difficilmente prevedibile e di certo interessante.
Deathbound è ambientato in un lontano futuro, in cui la civiltà umana, evolutasi sulle basi della società occidentale, è riuscita a raggiungere la vita eterna, dando vita ad un’epoca doro guidata dalla speranza e dal faro della tecnologia.
Dopodichè, misteriosamente, è caduta.
L’uomo ha perso l’immortalità, e ora sulle rovien delle raggianti città del passato i sopravvissuti si contendono i resti di un banchetto finito da secoli. Alla gioia della vita eterna e alle conquiste della tecnologia si sono ora sostituite la paura e la necessità per gli uomini di riunirsi in istituzioni religiose rivali che adorano la Morte o la Vita, più simili a sette di cultisti folli che ad aspiranti organizzazioni col compito di portare ordine in un mondo caotico.
Il fanatismo per la morte e la sfrenata ambizione di tornare ad essere immortali sono le uniche due dottrine tra cui gli uomini si dividono, mentre tentano di sopravvivere alle difficoltà quotidiane che un mondo in rovina porta con se.
Un mondo dove ora, ci ritroviamo anche noi
Sin dal primo momento dopo aver avviato l’applicazione, Deathbound non fa niente per render l’atmosfera leggera: ci troviamo nei sotterranei di un ospedale abbandonato, chissà quanti anni nel futuro, e passa ben poco tempo prima che il primo nemico venga a salutare il nostro avatar, sbattendogli in faccia senza pietà la dura realtà circa il tipo di gameplay che ci attenderà per le prossime ore: soulslike classico, sia nel combattimento che nell’esplorazione: i nostri avversari sono delle creature mostruose, più o meno umanoidi e gli ambienti in cui camminiamo sono oscuri, opprimenti e pericolosi.
L’esplorazione è appunto quella tipica del genere di appartenenza, con mappe interessanti e ben intersecate che favoriscono una appagante ricerca di oggetti, armi e collezionabili.
Il sistema di combattimento, di pari passo, propone tutte le caratteristiche che hanno portato alla ribalta quello che poi sarebbe stato chiamato “genere souls”, ma non si ferma a questo, introducendo di fatto alcune coraggiosissime novità: la principale di queste è senza dubbio quella legata al nostro personaggio.
Il giocatore infatti non si troverà, come spesso capita, a impersonare un avatar senza storia né fattivamente personalità, ma prenderà i panni di diversi interpreti, ognuno diverso dall’altro sia in termini di scrittura del personaggio, sia in termini di gameplay: Il gioco comincerà infatti nelle vesti di un simil-paladino del culto della Dea della Morte, armato di spada e scudo e ottimo per apprendere i rudimenti del combattimento. Proseguendo però nella storia avremo modo di sbloccare un’assassina, un bruiser, una spearman e ancora altre tipologie di pg, che saranno ovviamente totalmente differenti tra loro e offriranno un approccio alle battaglie diverso e vario.
L’idea di avere a disposizione più personaggi, che avranno modo di interagire tra di loro conversando in base alle loro profonde differenze circa le situazioni in cui si troveranno, viene approfondita ulteriormente dal fatto che Deathbound offre la possibilità di creare un vero e proprio party di 4 pg, che in base alla sua formazione e agli allineamenti dei personaggi avrà bonus e malus diversi sul campo di battaglia: questa feature permette di fatto ai giocatori di poter lavorare su un bilanciamento di team building vero e proprio, da mettere a punto in base alle nostre preferenze e alle diverse situazioni in cui, nel corso della storia, ci troveremo.
Il fianco maggiore di Deathbound viene in ogni caso mostrato sul piano tecnico: parlando di fatto di quella che è una produzione indipendente minore, lontana anni luce a quelle tripla a che hanno fatto grande il genere, appare quindi abbastanza naturale che le pretese dal punto di vista grafico non siano così elevate,
Il titolo di Trialforge, infatti, presenta un comparto molto semplice, con poligoni grossolani e animazioni facciali veramente basilari: anche il feeling del combattimento, per quanto sia comunque molto scorrevole, non riesce a scrollarsi di dosso una sensazione di essere forse un filo ingessato. Il risultato di questo che sembrerebbe un ossimoro è quello percepibile pad alla mano: dopo una prima parte di gioco in cui si prendono le misure con animazioni, tempistiche di attacco e frame chiave del combattimento forse non immediati, il giocatore impara a prendere le misure, e man mano che prosegue nell’avventura, impara a conoscere il sistema anche nelle sue imperfezioni, riuscendo così a non far si che queste pregiudichino la qualità dell’esperienza nel suo complesso.
Anche l’apparato audio è molto semplice e non offre di fatto degli alti notevoli: la colonna sonora, così come il sound ambientale sono di qualità sufficiente ad accompagnare il giocatore nel combattimento e nell’esplorazione, ma non si spingerà oltre questo compito.
In conclusione quindi si, Deathbound parla di idee e concetti, scelte e paura.
Parla dell’idea innovativa di portare nuove feature in un genere soulslike sempre più bisognoso di novità, snocciola nello specifico di quali siano queste visioni in termini di gameplay, con la formazione di party di personaggi così diversi e caratterizzati, propone mondi postapocalittici, ordinamenti religiosi, intuizioni.
Poi però, mentre Deathbound continua il suo monologo, la sua voce si fa più flebile: le ambientazioni, pur costruite con mappe ben intersecate, rimangono comunque anonime, il design dei nemici, le ambizioni grafiche e il comparto artistico sono tutti fuori che non sbocciano, lasciando il giocatore a chiedersi, dopo un importante impatto inziale, se a mancare sia la convinzione da parte degli sviluppatori, i mezzi tecnici o solo la capacità di confezionare un prodotto finito che voglia davvero graffiare il panorama al di fuori della sua nicchia.
Quello che resta, alla fine di Deathbound, è dunque solo in parte il ricordo di un videogioco con tutti i suoi limiti e i suoi pregi.
Rimane il ricordo di un’idea non completamente sviluppata, un discorso non finito che però aveva delle ottime premesse; nel linguaggio videoludico: un prodotto di nicchia interessante, ma che rimane appunto ancorato alla sua nicchia.
Versione testata: PS5, grazie al codice fornito dal publisher
Titolo
- Trama/Ambientazione 65%
- Grafica 60%
- Gameplay 50%
- Sonoro 60%
- Longevità/Multiplayer 70%