Se siete stanchi del solito ciambellone insapore, ho la ricetta che fa per voi:
- 200gr di ambientazioni oniriche alla Hayao Miyazaki
- 120 gr di sagace cattiveria degna dei titoli di Hidetaka Miyazaki
- coccolosi insetti q.b.
Dev’essere questa la ricetta seguita dagli australiani di Team Cherry per il loro titolo di esordio. Ma andiamo al sodo!
Hollow Knight fa parte di quella specifica categoria di videogiochi denominata Metroidvania. Parliamo quindi di un’esplorazione non lineare, con aree specifiche raggiungibili solo attraverso l’acquisizione di particolari abilità, oggetti o quant’altro. Pad alla mano, il richiamo a titoli come Ori and the blind forest o Dark Souls è molto, MOLTO forte, ma andiamo ad esaminare il tutto nello specifico, per quello che si appresta ad essere la nuova pietra miliare di un genere che, difficilmente, sforna titoli trascurabili.
Partiamo dalle basi del gameplay. Il titolo non stravolge quelle che sono le meccaniche classiche del genere, ma applica delle piccole modifiche.
L’attacco è direzionabile nelle 4 principali direzioni, e sarà affetto da una quantità fissa di knockback ogni volta che andrà a segno. Questo renderà rischiosi i colpi inferti in aria, o ai bordi di una piattaforma, ma permetterà anche di “rimbalzare” letteralmente sui nemici, concatenando lunghe e divertenti combo senza mai toccare terra, o dando accesso a particolari fasi di platforming.
Colpendo i nemici o alcuni particolari oggetti di sfondo, sarà possibile accumulare anime. L’utilizzo delle anime è, fondamentalmente, destinato all’uso dei poteri. Considerateli quindi dei veri e propri punti magia. Alla morte, invece, quasi tutti I nemici rilasceranno frammenti di GEO, la moneta di gioco con cui fare acquisti o attivare particolari oggetti.
Tornando ai poteri citati in precedenza, il primo a disposizione è legato al sistema di cure. In Hollow Knight non ci si potrà curare in maniera passiva, ma solo attraverso il “focus”. Tenendo premuto il tasto B (controller Xbox One), infatti, concentreremo le nostre anime al fine di curarci di un punto ferita alla volta, rimanendo però immobili e vulnerabili per tutta la durata dell’operazione. E’ naturale dedurre che servirà calcolare le giuste tempistiche per curarci, per evitare di consumare anime a vuoto. Se la ritirata potrebbe essere un opzione, quando si è a corto di punti ferita durante le nostre esplorazioni, durante le arene o le boss fight, le meccaniche di cura diventano molto più punitive: mettere a segno colpi per accumulare anime diventerà molto rischioso, e i tempi per curarsi andranno calcolati al millesimo.
Quando inevitabilmente ci ritroveremo ad esaurire, quindi, i nostri punti vita, il nostro corpo si separerà dal nostro spirito. Verremo rispediti all’ultimo checkpoint utilizzato, rappresentato dalle panchine sparse per il mondo di gioco. Proprio come in Dark Souls, nel nostro spirito saranno custodite tutte le unità di GEO fino ad allora raccolte. Sarà perciò possibile raggiungere nuovamente il punto in cui siamo morti, recuperare il nostro spirito, e tutti i geo in esso contenuti. Ci sono però due piccole problematiche per il giocatore:
- a differenza di quello che accade in Dark Souls, il nostro spirito non è una semplice pozza di anime, ma un vero e proprio ghost da combattere, con un suo pool di vita e con tutte le nostre skill a disposizione. Se vogliamo quindi recuperare I nostri GEO, ci sarà da combattere. Se siete morti in zone con tanti nemici presenti, contatene uno in più.
- Se quello già detto non dovesse bastare, finché non recupereremo il nostro spirito, la quantità di anime accumulabile è ridotta del 30% circa. Quindi meno cure, meno poteri, più difficoltà.
A venirci incontro è il sistema di personalizzazione del personaggio: grazie agli amuleti (charm) che acquisteremo o troveremo durante la nostra avventura, potremo modificare alcune meccaniche di gioco a nostro favore. Possiamo aumentare il raggio della nostra arma, eliminare il knockback, aumentare il numero di anime raccolte, ottenere uno scudo temporaneo durante il focus, etc. Ogni amuleto occupa uno specifico numero di incavi (notch), di cui disponiamo in quantità risicata. Nonostante sia possibile aumentarne il numero, ottenendo nuove unità da mercanti o attraverso sfide, il numero di amuleti equipaggiabili sarà comunque limitato, e saremo portati a scegliere solo quelli che si adatteranno maggiormente al nostro stile di gioco.
Facendo ora un passo indietro e ricollegandomi ai checkpoint descritti poco fa, mi concentrerei sulla mappa di gioco.
Ad occhio, la mappa di Hollow Knight è tra le più grandi mai presentate in questo genere. Le macro-aree, o zone a dir si voglia, hanno un design molto convincente. Ognuna presenta un suo tema grafico caratteristico, che influenza a sua volta il set di nemici che ci troveremo ad affrontare, e la colonna sonora che ci farà da accompagnamento. Le fasi di platforming sono sempre ben studiate, col giusto livello di difficoltà e mai troppo punitive.
Meccanica particolare è quella della mappa come oggetto di gioco. Ogni volta che entreremo in una nuova zona, dovremo cercare il cartografo per comprare la mappa del luogo. Al fine di poter tracciare la nostra posizione su di essa, avremo bisogno di un amuleto particolare, acquistabile nelle prime fasi di gioco da un npc a Dirtmouth (dalla moglie del cartografo… un business insomma!). Tutto ciò che serve a “pinnare” sulla mappa npc, oggetti specifici, negozi, panchine e quant’altro, sarà sempre acquistabile dallo stesso npc. La mappa non si aggiornerà automaticamente in itinere, ma solo ed esclusivamente quando siederemo sulla panchina. Bellissime tutte le animazioni inerenti alla consultazione e all’aggiornamento della mappa.
Insomma, potete ben capire che anche la semplice esplorazione diventa una sfida interessante, e la ricerca del cartografo diventerà un appuntamento fisso all’ingresso in una nuova zona.
Quello che fa però storcere il naso, riguardo il level design, è l’eccessiva quantità di backtracking che ci ritroveremo a dover fare.
Se è vero che in puro stile metroidvania, creando scorciatoie o ottenendo abilità, riusciremo a ripercorrere lo stesso tragitto in minor tempo andando avanti nel gioco, la disposizione dei checkpoint e delle Stag Station (il sistema di trasporto tra una zona e l’altra) non è esattamente delle più convincenti. Molto spesso le stazioni sono lontane da punti di interesse quali shop o npc importanti. I checkpoint sono quasi sempre concentrati sulle stazioni, o in punti totalmente isolati. Ogni volta che ci toccherà spostarci per fare acquisti, ottenere potenziamenti o raggiungere particolari aree di una zona, ci ritroveremo a fare più backtracking di quanto ci aspetteremmo. Non parliamo ovviamente di un difetto “game-breaking”, considerando anche che col respawn dei nemici, le lunghe camminate si trasformeranno in ottime occasioni per il farming. E’ giusto però segnalare che alla lunga, la situazione, potrebbe rivelarsi fastidiosa per i giocatori meno pazienti.
Eviterò volontariamente di parlare della trama, per non rovinare l’atmosfera a chi deciderà di affrontare in prima persona il gioco. Mi limito a comunicare che il tipo di narrazione è simile a quella di Dark Souls, dove non esistono vere e proprie cinematic a tracciare il prosieguo della trama in maniera lineare, ma dovremo sviscerare dialoghi ed elementi di contorno per far propri gli avvenimenti accaduti nel mondo di Hallownest.
Per quanto riguarda Boss e nemici, invece, ne troverete in abbondanza di entrambi. Le Boss fight sono sempre epiche e difficili al punto giusto, senza dare mai l’idea di esser morti per ragioni casuali. I nemici generici, poi, sono tanti, unici (tranne qualche reskin), e con pattern d’attacco variegati, che fanno si che si incastrino perfettamente col resto del sistema di combattimento. Non mancano anche sfide secondarie come arene e missioni impossibili (… dannati fiori delicati…).
E’ il momento però di trarre delle conclusioni. Nonostante alcuni difetti non trascurabili, non si può ignorare il lavoro mostruoso fatto durante la realizzazione di Hollow Knight. Alcuni difetti di gioventù, come dei comandi non reattivissimi, qualche sporadico mini-freeze, e un’organizzazione dei checkpoint rivedibile, non sono sufficienti a sminuire un titolo che ha dalla sua una fortissima identità, un design ricco e un gameplay tutto sommato solido. Titoli come questo danno infatti credibilità e dignità al movimento videoludico indipendente, dimostrando come avere totale libertà sui propri progetti possa portare alla realizzazione di idee originali, affascinanti e memorabili.
Cito inoltre la biografia che lo stesso Team Cherry riporta sul suo sito:
“la nostra missione è creare folli e eccitanti mondi da esplorare e conquistare”.
Beh, se ora va di moda il “bene, non benissimo”, direi che è opportuno riportare in auge, per concludere questa recensione, il più attinente “buona la prima!”.