Tra le dramedy più apprezzate della televisione c’è Orange is the new black.
Forte di un successo arrivato da pubblico e critica, la serie ideata da Jenji Kohan e prodotta da Lionsgate è arrivata alla sesta stagione e forse, ci stiamo avvicinando a una conclusione, la quale non arrivando potrebbe far inserire nell’intero progetto l’effetto Lost che tutti conosciamo. (Dexter insegna purtroppo). Dalla prima stagione la struttura interna degli episodi non è cambiata (tranne alcune eccezioni), prigione e libertà si alternano con i flashback dei personaggi, i quali consentono alla serie uno sguardo sulle diverse dinamiche sociali del nostro tempo. Orange is the new black non ha paura di ripetersi e difatti arrivati alla sesta stagione, non avvertiamo una stanchezza del prodotto ma una vera costruzione dimenticabile di tutti i personaggi introdotti, affiancati da molte situazioni che non ci scalfiscono minimamente.
Tutto è cambiato. La massima sicurezza lascia le protagoniste spaesate in un luogo molto più pericoloso del precedente, completamente invisibile e lasciato in disparte; la narrazione si concentra sulle detenute che hanno partecipato attivamente alla rivolta, perciò vedremo Piper, Red, Tasha e molte altre, non più unite come un tempo.
Spazio (inteso come luogo di prigionia) e tempo operano benissimo nella psicologia delle donne carcerate, le quali non potendo più comunicare come in passato diventeranno vittime di loro stesse e delle loro convinzioni. Durante le puntate ci si accorge di come i picchi emotivi siano generati dalla serialità del progetto, il quale non riesce a introdurre characters affascinanti, veicolando lo sguardo dello spettatore verso quei momenti che sono frutto di una catena di eventi che hanno portato a questa stagione.
Il rapporto tra Joe e Natalie, la relazione tra Alex e Piper, rappresentano perfettamente come la serie sia arrivata a un percorso narrativo, in grado di realizzare pochissimo per via di una grande scrittura dei personaggi nel corso delle puntate, grazie alle quali vivere un po’ di rendita.
Orange is the new black sembra essere arrivata a una conclusione per via di un approfondimento psicologico affrontato benissimo e perciò superfluo in alcuni frangenti. Non è assolutamente un prodotto pessimo, la complicità tra le detenute rimane un grandissimo punto di forza, affiancato dal binomio, esplorato meglio in quest’annata, tra detenuto e carceriere, attraverso i quali raccontare due tipi diversi di prigione.
Deludono tantissimo le new entry e sebbene il luogo sia diverso, più crudele, non percepiamo quella rivoluzione che doveva esserci per non costruire una stagione dimenticabile.
A causa di eventi molto importanti, Orange is the new black non finisce per essere un prodotto trascurabile, ma nel complesso la scrittura sembra essere molto conscia del lavoro ottimo svolto finora e perciò non s’impegna come dovrebbe, tuttavia ci sono buone probabilità per una prossima stagione molto più interessante.