Si è conclusa da quasi un mese, tra critiche e plausi, la terza stagione di Westworld, epopea fantascientifica dei coniugi Jonathan Nolan e Lisa Joy.
Quello che si è notato fin da subito è come la serie abbia preso una piega differente dai primi due archi narrativi andati in onda biennalmente l’uno dall’altro.
In questo terzo ciclo, Westworld si libera dalle sue “catene” filosofico-concettuali che avevano accompagnato i primi due cicli di episodi e lo fa attraverso la sua protagonista, Dolores (interpretata da una Ewan Rachel Wood in parte come non mai).
Il mondo fuori dal parco
Dolores fugge dal parco ed entra nel mondo reale, un futuro distopico del nostro tempo, spaventosamente realistico, per cercare vendetta e liberare tutti gli ospiti dal controllo imposto dagli umani.
Quello di cui ci accorgiamo fin da subito è quanto il mondo reale dipinto dai due autori non sia poi così diverso dal parco, ma forse molto più caotico e confusionario.
I deliri di onnipotenza dei magnati, che nel parco rinunciavo a ogni freno inibitorio abbandonandosi ad istinti animaleschi e viscerali, qui si fanno più sottili nei modi ma sempre mostruosi. Gli umani di questa distopia non sono diversi dagli ospiti incontrati nel parco e ce ne accorgiamo fin da subito attraverso gli occhi di Caleb Nichols (Aaron Paul), ex veterano di una guerra non ben specificata incapace di accogliere i demoni del suo passato. Caleb è alla disperata ricerca di un lavoro (o di uno scopo) che non riesce a trovare, per dare un senso alla sua vita, o semplicemente sopravvivere. Il suo destino viene stravolto dall’incontro con Dolores che gli mostra che il suo continuo cercare di dare un senso alle cose – invano – non è in realtà solo un mero atto di sfortuna.
Si apre da qui una metafora molto critica del mondo in cui viviamo oggi, un mondo che sembra aver già deciso tutto per noi senza renderci protagonisti del nostro destino, ma solo schiavi di una società che impone un ritmo frenetico dove non si riesce neanche a fermarsi un minuto a pensare.
Un visione più ampia
Per quanto questo cambio di scenario sia stato mal digerito dal pubblico, Westworld non poteva continuare ad andare avanti rimanendo fisicamente nel parco, doveva spostarsi, doveva evadere da sé stesso. Ci avevano detto che c’era molto altro dietro il parco e che la macchina messa in moto da Ford era molto più ampia di quella che ci avevano mostrato.
Gli autori ci dicono questo infatti, le prime due stagioni ci hanno posto un discorso etico e morale, un discorso fatto molte volte nel cinema, nella letteratura, nella serialità televisiva e ci hanno fatto riflettere insieme ai protagonisti su dove sia l’etica, la moralità, l’umanità, la ragione e qual è il mondo migliore da raggiungere. La serie ha sfruttato il parco come base per raccontare tutto questo, circoscrivendo la narrazione in un centro nevralgico da cui far partire la vera rivoluzione.
Il parco ha esaurito tutto quello che aveva fisicamente da dire con il finale della seconda stagione, il bellissimo episodio chiamato “The Passenger”. Ma è un errore pensare che sia stato abbandonato o che non abbia un certo peso e rilevanza nella storia. Il parco resta il tema centrale di tutta la terza stagione, l’azione parte da lì, il dialogo torna sempre a quel punto, il movente dei personaggi pure. Dolores resta la rappresentazione ‘vivente’ del parco, di una dignità perduta e di un voler chiedere il conto.
Nel finale della terza stagione (senza fare spoiler) si arriva anche a un messaggio di speranza, per tutte e due le fazioni che sembrano irrimediabilmente agli opposti.
Il punto è che Westworld non è una serie come molte altre, gli autori fin da subito hanno imposto la propria visione cercando l’autorialità dell’opera e non tenendo conto delle esigenze del pubblico. È un errore pensare che questi ultimi episodi siano un comunissimo fan service, per assecondare un pubblico che vuole banalmente più “azione”.
La solida struttura narrativa creata nei primi episodi fa da muro portante a quello che sarà un lussuoso castello solo alla fine della sua corsa. L’opera di Jonathan Nolan e Lisa Joy andrà valutata globalmente solo quando ne vedremo la fine, perché è chiaro che c’è ancora molto altro da dire e che i due autori stiano creando qualcosa di molto più stratificato di ciò che abbiamo visto finora.
La terza stagione cambia le carte in tavola perché non c’era più motivo di restare negli stessi schemi delle prime due stagioni, c’era bisogno di un cambiamento e il passare da lunghe riflessioni sui massimi sistemi a un ritmo frenetico e serrato si rivela una scelta vincente che si fa anche metafora del mondo moderno.
Nel parco, avevamo la natura, avevamo la staticità, potevamo parlare, potevamo riflettere con i personaggi, eravamo fermi come se ci fossimo fatti una passeggiata nella natura, nel verde, potevamo fermarci a pensare.
Nella metropoli, non possiamo fermarci, tutto è moto perpetuo e frenetico, quindi basta parlare, basta riflettere e basta pensare. Si passa alla corsa, si passa alla violenza.
Non vedo in questa rappresentazione un mondo troppo diverso da quello in cui viviamo tutti i giorni.
Il punto di arrivo
Ecco perché non bisogna pensare a Westworld come qualcosa che prosegue per generare introiti o piacere a tutti i costi al pubblico. Gli autori si sono presi i loro tempi, se li stanno tuttora prendendo e hanno chiaramente un obiettivo in mente. Con tutta probabilità HBO sa tutto questo e ha deciso di scommettere su questo progetto a lungo termine: ecco perché il rinnovo per la quarta stagione nonostante i bassi ascolti.
Ci sono molte serie che hanno avuto il successo che meritavano quando sono arrivate al capolinea, ho ragione di pensare che Westworld sia tra queste. La serie si è affermata subito con una scrittura fortemente autoriale, una scrittura che vuole affermare il progetto come opera e non come intrattenimento.
In passato, si era pensato che la serie fosse un’erede che doveva prendere il testimone di Game of Thrones e fin dalla prima stagione ha egregiamente dimostrato che non non è così.
Non si potrebbe che essere più contenti di ciò.